Il 2021 inizia con una fine, quella dell’edizione in lingua inglese di “The Correspondent“, il giornale che voleva raccontare le trasformazioni del mondo, seguendo la filosofia delle unbreaking news.
Un giornalismo di approfondimento e riflessione, finanziato con le sole iscrizioni, senza pubblicità. Un giornalismo che vuole cercare, con il racconto delle storie, l’ago di una bussola per orientarsi nella complessità di un mondo in continua trasformazione.
Sono stato uno dei primi sottoscrittori (membri, li chiamano loro) da quando è nato, insieme a persone di oltre 140 Paesi. Non so cosa non abbia funzionato. Forse, semplicemente, non poteva dare le risposte che le persone volevano, in un anno in cui l’emergenza ha portato con sé l’attenzione su domande molto puntuali come: “cosa succederà domani nella mia vita quotidiana? Cosa del mio lavoro? domani sarà riaperta la scuola dei miei figli? come proteggere la salute della mia famiglia?”. Di fronte a queste domande è diventato difficile promuovere l’idea di un transnational journalism, capace di costruire nel tempo le sue storie collegando il mondo in un’unica riflessione, ma anche incapace di raccontare la tumultuosa quotidianità locale.
Questo ci porta ad una riflessione sulla nostra capacità di analizzare criticamente le trasformazioni e le cose che succedono nel mondo, senza l’ansia e la pressione di una lente, oggi quella della pandemia, che focalizzi e centralizzi l’intera attenzione mediatica.
Il 2020 è, sicuramente, stato l’anno del COVID-19, in cui il mondo si è scoperto del tutto impreparato ad un fenomeno del genere, in cui si sono sperimentati lockdown, blocco delle frontiere, crisi economiche e sociali.
E le crisi sono anche, essenzialmente, acceleratori delle trasformazioni già in essere, trasformazioni che non si colgono nell’agitato divenire quotidiano, ma si capiscono lentamente, mentre la polvere si posa, facendo un passo indietro, per osservare e, lucidamente, ragionare.
Osserviamo l’anno appena finito. Cosa è successo a parte il COVID (o accanto, o anche a causa sua)? In ordine sparso alcune cose che mi vengono in mente. È stato eletto il nuovo Presidente degli Stati Uniti e non è un avvicendamento ma un completo cambio di paradigma, per il mondo. I fatti di Capitol Hill dei giorni scorsi lo testimoniano. Si consuma definitivamente la Brexit (altro evento che non può non essere epocale). Il movimento Black Lives Matter fa esplodere nuovamente il tema dei diritti civili delle minoranze più povere, proprio nell’anno in cui muore Ruth Bader Ginsburg (l’icona “liberal” alla Corte Suprema Americana). Intanto le proteste dopo le elezioni in Bielorussia sembrano raccontare nuove (vecchie) istanze, mentre, in Turchia, Santa Sofia torna ad essere una moschea.
Le trasformazioni digitali intanto continuano a cambiare il modo di vivere, la quotidianità e la stessa identità delle persone e delle comunità. La prospettiva tecnologica del 5G, al netto di polemiche e discussioni, rimane la frontiera tecnologica dove misurare l’innovazione e al momento alcuni degli equilibri strategici internazionali. E ci interroghiamo sul solito dilemma tra sviluppo e libertà e sicurezza, leggendolo sempre con la lente dell’urgenza.
Intanto scopriamo che la tecnologia che c’è già ci consente di cambiare il nostro modo di lavorare, studiare, comunicare, vivere la quotidianità. La tecnologia dimostra la propria potenzialità, ma è il cambiamento culturale e la creatività a poter dare un valore a questa trasformazione. I dati continuano a poterci fornire la capacità di studiare ed analizzare il mondo come mai prima, eppure mai come ora ci sentiamo incapaci di prevedere e capire quello che capita. Lo smart-working dimostra che una diversa concezione del lavoro e dei servizi è realizzabile, se si vuole, ma poi serve un cambio di organizzazione, pianificazione, relazione, mentalità, volontà. La didattica digitale ci suggerisce che potremmo avere un sistema formativo personalizzabile, dinamico e creativo, se solo ci credessimo, se solo non pensassimo che la scuola sia un totem intoccabile e che l’insegnamento (tradizionale) abbia qualche valore in sé (come già ho detto “l’insegnamento non esiste, perché è l’apprendimento l’obiettivo da perseguire”, per chi vuole c’e un mio articolo, su questo).
E questa grande potenzialità, alla fine, irrompe nel nostro mondo, nella nostra quotidianità stravolta e ci propone un modo di vivere e relazionarsi che ci sembrava di non conoscere, e che ora sembra correrci incontro, quasi minaccioso. E per un attimo capiamo che è solo quel mondo e quel modo di vivere che, semplicemente, i nostri figli avevano già tra le mani. Esattamente come il futuro.
Allora, quando questa crisi sarà alle spalle, quando non sarà l’unica lente che ci permette di vedere il mondo, quando quest’onda anomala che si abbatte sulla nostra capacità critica tornerà indietro, cosa lascerà ai nostri piedi, quali opportunità di comprensione e trasformazione e progresso umano, sociale, culturale?
E poi, d’altronde, forse potrà affacciarsi ancora un nuovo progetto (giornalistico, scientifico, culturale) basato sull’analisi delle trasformazioni sociali, in cui le storie (la storia) coinvolgono tutti, senza confini, ruoli ed età. In cui ci sono ancora la meraviglia e l’analisi onesta e costruttiva del nostro mondo ad aiutarci a capire noi stessi e la nostra evoluzione. Un nuovo spazio della nostra quotidianità in cui ricominciare a cercare la bussola per provare a capire dove va il mondo, liberamente.
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