Le organizzazioni sono sempre più fluide e flessibili, le competenze richieste – tra digitali e trasversali – ridefiniscono il modo di lavorare e la ricerca di uno scopo in quello che si fa assume tutta una nuova importanza, soprattutto alla luce di quanto vissuto negli ultimi due anni.
Ma ha senso, oggi, parlare di luoghi di lavoro?
Una cosa è certa: i luoghi di lavoro stanno mutando la loro funzione. Il legame tra l’attività lavorativa e i cambiamenti sociali e tecnologici è sempre stato molto forte, e quello tra prestazione e layout degli uffici si è modificato di conseguenza, spesso più per moda che per sostanza e non sempre in modo efficace. E quasi mai partendo dalle esigenze espresse dalle persone.
Negli anni ‘80, ad esempio, iniziano ad andare di moda i cosiddetti “cubicoli”, cubi di linee rette utili a distribuire in modo efficiente i mobili, che esaltano i paradigmi della gerarchia e dell’individualità. Nel decennio successivo, invece, nascono gli open space, sviluppati per rispondere a nuove esigenze organizzative e per ridurre la superficie occupata. Spazi (normalmente) più luminosi e collaborativi, ma che non hanno certo aiutato la concentrazione del lavoratore, privato della privacy di cui pure godeva nel cubicolo. L’evoluzione continua nei primi anni del 2000, dove iniziano a comparire i primi spazi di coworking, una soluzione pensata per garantire un movimento più fluido all’interno dell’ambiente condiviso, per incoraggiare la cooperazione e incrementare la capacità di fare squadra. L’Activity Based Working è il modello emergente che propone la progettazione di spazi e arredi diversificati, ognuno dedicato ad una specifica attività. In questo modo, piuttosto che partire da un’organizzazione gerarchica dello spazio, il principio che dà forma alla disposizione dell’ambiente è quello di agevolare specifiche attività.
Lo smart working sperimentato in modo diffuso nel periodo del lockdown ha accelerato il processo di dissociazione tra lavoro e luogo di lavoro ma, non assistito da un cambiamento organizzativo e culturale, si è spesso tradotto in fonte di stress e a volte in perdita di produttività organizzativa. La lezione che questa pandemia avrebbe dovuto essere appresa dall’organizzazione risiedeva nella riscoperta del valore dell’autonomia come leva per lo sviluppo della performance, della creatività del valore, della fiducia e della professionalità. È diventata invece la scusa per call interminabili e una dispersione di energie e informazioni. La perdita della dimensione informale non è stata normalmente bilanciata da strumenti organizzativi equivalenti e l’emergenza è diventata new normal. Così, stiamo andando verso il nuovo paradigma di gestione dello spazio. Da una parte i lavoratori chiedono flessibilità per gestire i propri tempi di vita, dall’altra le organizzazioni capiscono che possono risparmiare economicamente sugli spazi. Ecco il deal ibrido: si va in ufficio due o tre giorni a settimana, in cambio della rinuncia alla postazione fissa, che è possibile prenotare all’interno dei nuovi spazi disegnati da architetti specializzati, conservando gli oggetti personali in funzionali locker. È facile immaginare come questo compromesso sia a scapito della produttività e del valore organizzativo, se non è accompagnato e guidato da una revisione della leadership e della cultura aziendali.
Ma perché continuiamo a pensare all’ufficio come luogo centrale per la prestazione e non invece alla prestazione ed al valore creato dalle persone? Gartner lo chiama approccio umano-centrico (si veda il report “Human Centric Workplace”). Più in generale, il lavoro è un sistema di scambio fisico e virtuale in cui competenze, capacità, tecnologie e personalità si combinano per generare valore. La dimensione fisica della prestazione dovrebbe assecondare questo processo, tenendo conto delle specialità di ogni attività e di ogni lavoro. Come farlo? Tre suggerimenti: 1) fidandoci delle persone, analizzando abitudini, modalità di scambio e cultura professionale all’interno dell’organizzazione; 2) favorendo l’ascolto, al fine di individuare necessità e priorità; 3) non avendo paura di destrutturare e sbagliare: lasciare che gli spazi (fisici e virtuali, almeno alcuni) prendano forma a seconda delle necessità estemporanee delle persone, ricorrendo anche alle potenzialità offerte dalla tecnologia.
Nel frattempo, si affaccia un nuovo spazio virtuale che costituisce la futura (forse) estensione del luogo di lavoro: il Metaverso. Questo potrebbe consentire infatti di creare non solo momenti di lavoro condiviso, ma anche e soprattutto spazi di confronto individuali e informali, diventando nel tempo un nuovo luogo di produzione, oltre che di meeting (tanti i problemi sociali, contrattuali, culturali che questo scenario aprirà, materiale per altri approfondimenti).
E poi, d’altronde, far parte di un’organizzazione è soprattutto un processo di condivisione di identità, valori e obiettivi, un processo di relazione umana in cui solo la passione delle persone può fare davvero la differenza. Costruiamo quindi un luogo fisico, virtuale, culturale e valoriale in cui questo possa avvenire.
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