L’Employment Outlook 2023 dell’OCSE disegna un quadro ancora incerto rispetto all’impatto dell’AI sull’occupazione. Una cosa però è sicura: il lavoro è destinato a cambiare in tutte le organizzazioni, pubblica amministrazione inclusa. Ecco le evidenze principali del report e alcuni spunti di riflessione su temi centrali in questo contesto in rapida evoluzione, come la rapida obsolescenza delle competenze e delle professioni che richiede un diverso modello di formazione scolastica, universitaria e professionale
Contenuto originariamente pubblicato su ForumPA.it
È stato recentemente pubblicato l’“OECD Employment Outlook 2023”, il Rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che analizza le ultime tendenze e le sfide del mercato del lavoro nei Paesi membri. Domanda e offerta di lavoro, dinamiche salariali, impatto dell’intelligenza artificiale sono i temi principali su cui si concentra il rapporto.
IA e mondo del lavoro: cosa emerge dall’Employment Outlook 2023 dell’OCSE
Dal punto di vista macroeconomico, il rapporto evidenzia come al momento il mercato del lavoro stia reagendo complessivamente bene al contesto dal punto di vista dei livelli occupazionali, tuttavia con una evidente diminuzione dei salari reali in tutti i Paesi OCSE, soprattutto a causa dei livelli di inflazione degli ultimi anni. Dal report emerge come, benché l’impatto dello sviluppo delle intelligenze artificiali sul mercato sia destinato ad essere significativo, sussiste comunque incertezza rispetto agli effetti attesi di questa transizione. Eppure, tre lavoratori su cinque, hanno manifestato la forte preoccupazione di essere completamente sostituiti nel proprio lavoro nel corso dei prossimi 10 anni. E questo soprattutto in conseguenza all’avvento e allo sviluppo della Generative AI.
Ci aspettiamo un impatto fortissimo per tre motivi fondamentali:
- l’intelligenza artificiale espande significativamente la gamma di compiti che possono essere automatizzati;
- è una tecnologia applicabile a tutti i settori e tutte le professioni;
- lo sviluppo degli algoritmi di intelligenza artificiale è senza precedenti e l’innovazione procede a una frequenza mai osservata prima.
Ma quale sarà l’impatto finale sul lavoro? Il report non arriva a una conclusione definitiva. La verità è che – ancora – non lo sappiamo. Le professionalità più impattate saranno sicuramente quelle ad elevata competenza e direzionali, in particolare in ambito scientifico ed ingegneristico, i manager e chi si occupa di amministrazione, consulenza e gestione del business. Questo non stupisce, perché è nei processi elaborativi e di supporto all’analisi e alla decisione che l’IA sta facendo i maggiori passi avanti. Conseguentemente, le occupazioni meno esposte dovrebbero al momento riguardare la filiera del cibo, dell’agricoltura e dei servizi di pulizia e alla persona.
Si conferma, d’altronde, un trend già noto da tempo. Avevamo avuto modo di parlarne ultimamente, proprio in occasione di un interessante dialogo con Gianni Dominici. Le intelligenze artificiali stanno invadendo il mondo produttivo, per così dire, dal basso e dall’alto. Dal basso, proseguendo il processo tipico delle rivoluzioni industriali, in cui le macchine si sostituiscono alle persone nei processi routinari e “robotizzabili”, che la tecnologia può compiere in modo più veloce, efficiente, efficace, sicuro, produttivo. Ma questo processo di sostituzione avviene anche dall’alto. La tecnologia può, infatti, gestire i processi elaborativi e decisionali, applicati a molti dati. L’IA generativa è ormai in grado di produrre contenuti, immagini, codice, in modo sempre più simile a quello che produrrebbe un essere umano. La rivoluzione che avremo quando l’IA generativa entrerà nei software di produttività individuale sarà dirompente, forse simile a quando i computer sono comparsi sulle scrivanie delle persone, ma con una velocità di inserimento nei processi lavorativi molto più alta.
Come detto, però, i numeri suggeriscono che finora l’effetto dirompente sul mondo dell’occupazione non si sia (ancora) visto. Diverse le ragioni: bassa adozione massiva, finora, dell’IA e guadagni modesti in produttività, non piena automazione dei processi e ricollocazione dei lavoratori (i cui compiti sono svolti dalle macchine) ad altre attività sempre all’interno delle aziende, la creazione di nuovi compiti e lavori.
Ma se considerassimo solo il fenomeno della “sostituzione” di lavoro con capitale, non coglieremmo la vera opportunità di questa trasformazione. Il processo produttivo si innova profondamente solo nella misura in cui le macchine sono al servizio e collaborano con l’essere umano. È in questa collaborazione, infatti, il valore aggiunto dei nuovi processi di trasformazione, in quell’area in cui il lavoro è ibrido, le persone guidano l’apprendimento delle macchine e la tecnologia aumenta la capacità delle persone di analizzare e comprendere i fenomeni, memorizzare informazioni, studiare scenari, porre domande nuove, immaginare il futuro. L’intelligenza artificiale generativa produce contenuti in modo veloce e in prospettiva sempre più qualitativa, ma il suo valore è decisivo quando una persona può applicare su quei contenuti la sua valutazione critica e la sua visione.
Ci saranno lavori che già nel breve periodo verranno svolti dalle macchine. Altri che verranno sostituiti molto più tardi. Altri ancora, probabilmente, resteranno a pieno appannaggio dell’essere umano. Tra questi ultimi sicuramente quelli che riguardano l’arte[1], la creatività (che è cosa diversa dalla capacità generativa dell’intelligenza artificiale), l’etica, la giustizia, il pensiero laterale, l’empatia. Competenze tipiche delle persone. Ma che vanno sviluppate in modo completamente diverso da come abbiamo fatto in passato.
Sono competenze che si sviluppano esaltando l’autonomia, l’apprendimento, la curiosità. Sviluppando la motivazione intrinseca (quella che ci spinge ad agire per il piacere di quello che facciamo), riconoscendo il valore del contributo umano. Significa creare spazi in cui sviluppare il proprio potenziale, in cui esiste il tempo per l’innovazione. Significa ripensare l’organizzazione dalle sue fondamenta.
Nel report viene avanzata anche l’ipotesi che la “lentezza” con cui le intelligenze artificiali stanno facendo il loro ingresso nei processi produttivi delle aziende sia ascrivibile alla mancanza delle competenze necessarie per il loro pieno utilizzo e, in effetti, le imprese segnalano proprio questo aspetto come un ostacolo all’adozione di queste tecnologie. Conseguentemente la formazione rimane uno strumento fondamentale per raggiungere molteplici obiettivi. Ai lavoratori sarà richiesto di sapersi adeguare sempre più velocemente alla trasformazione del proprio lavoro, mentre la competitività delle imprese passerà per la loro capacità di sviluppare e assicurarsi le competenze necessarie per costruire, consolidare e gestire set di dati di alta qualità, di affrontare le connesse questioni di sicurezza e privacy e di utilizzare le tecnologie adatte al proprio business e al proprio contesto. Infine, la formazione consente di sviluppare un uso consapevole ed etico delle IA, rimanendo un potente strumento di accompagnamento al cambiamento culturale nelle organizzazioni.
Alcune ulteriori riflessioni su una inevitabile rivoluzione
Il quadro fornito dal report ci propone alcuni ulteriori spunti che vale la pena provare a contestualizzare, intorno ad alcune evidenze che ci consentano di guardare oltre il quadro fornito dal documento. Appare evidente come la rapidità e la frequenza delle innovazioni è tale per cui nell’immediato futuro non sarà possibile per nessuno utilizzare o seguire tutte le innovazioni che diventeranno disponibili, ma occorrerà scegliere quelle più adatte al proprio contesto e al proprio business. La velocità di cambiamento delle organizzazioni (e dunque la loro competitività economica), dipenderà allora prevalentemente dalla cultura aziendale e dell’ecosistema in cui si inseriscono. L’efficacia di un’innovazione dipenderà infatti dalla capacità del sistema organizzativo di trasformarla in valore e della clientela di riferimento di saperla utilizzare propriamente. Peraltro, l’introduzione dell’IA generativa rappresenta una trasformazione che, nel breve periodo, accelererà il tasso di obsolescenza di interi sistemi produttivi. Sarà cioè un’innovazione irrinunciabile, capace di trasformare velocemente il contesto, come lo sono stati il World Wide Web negli anni Novanta e gli smartphone nei primi anni 2000. Ma con un tempo di “tolleranza all’adeguamento” molto inferiore. Per questo dobbiamo comprendere come l’IA non sia tanto una soluzione informatica, quanto, piuttosto, una scelta strategica aziendale.
Questa accelerazione dell’innovazione significa anche la rapida obsolescenza delle competenze e delle professioni che richiede un diverso modello di formazione scolastica, universitaria e professionale. Le competenze digitali e di utilizzo dell’IA diventano la base per qualunque professione del presente e del futuro e devono necessariamente trovare il loro spazio in tutti i percorsi formativi (tecnici ed umanistici), non rimanendo confinate nelle discipline scientifiche[2]. Parallelamente, accanto ed insieme alle competenze tecniche, divengono cruciali, come detto, le soft skills che le tecnologie non possono realmente sostituire: pensiero laterale, problem setting, creatività, empatia, etica, leadership, capacità relazionale e comunicativa. Ma, ancora, questo percorso formativo e di sviluppo deve essere costante e continuo nella sua radicalità, accompagnando le persone verso la consapevolezza e lo sviluppo.
Inoltre, l’introduzione di sistemi di algoritmi capaci di sostituire processi complessi deve essere presidiata, controllata e indirizzata, per favorire un loro utilizzo consapevole e virtuoso. Lo sviluppo di algoritmi che regolino business e sistemi complessi ci espone, infatti, al rischio di bias pericolosi. Ne possiamo identificare almeno tre tipologie. La prima riguarda il contesto: semplicemente gli algoritmi non ce l’hanno, non riconoscono o interpretano la cultura in cui sono inseriti, si comportano nello stesso modo in qualunque contesto vengano lanciati, replicando i principi e la cultura in cui sono stati sviluppati. La seconda tipologia riguarda i bias e i pregiudizi dei programmatori che si incorporano naturalmente nell’algoritmo che realizzano. La terza tipologia, infine, riguarda i pregiudizi sociali insiti nei dati: se si basa su tutti i dati storici, senza filtri e considerazioni, l’algoritmo replicherà e potenzierà i pregiudizi e le ingiustizie dei sistemi sociali in cui è inserito. Allora, diventa fondamentale la supervisione umana sulla qualità, completezza e correttezza dei dati di input e sull’affidabilità, l’efficacia e la desiderabilità degli output dell’uso dell’IA, aprendo a nuove dimensioni professionali, più complesse e impegnative, che aggiungano critica all’utilizzo degli strumenti.
L’IA nella pubblica amministrazione Post-Digitale
Il lavoro è destinato a cambiare in tutte le organizzazioni, pubblica amministrazione inclusa. In un momento in cui le IA – soprattutto quelle generative – stanno già facendo il loro ingresso nei nostri strumenti di produzione individuali e la digitalizzazione ha finalmente raggiunto anche gli Enti più piccoli, è necessario che le istituzioni riflettano sui cambiamenti che devono adottare, per cogliere le opportunità della rivoluzione in atto.
Nel contesto internazionale si parla ormai di Post-Digital Government, un modello in cui la PA è capace di utilizzare i dati per creare valore per i cittadini, comprendendone e anticipandone i bisogni, personalizzando i servizi. Conseguentemente, la PA può (e deve) essere capace di misurare l’impatto delle proprie azioni, coinvolgendo i cittadini stessi nella definizione degli outcome ottimali attesi, parallelamente garantendo l’accessibilità e la semplicità dei servizi digitali offerti. Si parla al riguardo di una PA empatica capace di ascoltare i cittadini, realizzando innovazioni di valore, sostenibili, comprensibili e utilizzabili nella cultura del Paese. In questo modo, il sistema pubblico riesce anche ad assumere la guida trasformativa dell’intero ecosistema in cui si inserisce, dettando la rotta di una innovazione sostenibile, accessibile e inclusiva. È una sfida complessa, che passa per una nuova cultura del lavoro e dell’innovazione e per un processo di sviluppo che favorisca formazione e diffusione di conoscenza, coscienza e visione. Un processo che ci vede tutti coinvolti.
Il futuro è dunque pieno di opportunità e possibilità, spetta a noi la responsabilità di utilizzare gli strumenti tecnologici che la creatività umana ci mette a disposizione per costruire in modo consapevole il mondo in cui vogliamo vivere e in cui la persona rimanga il centro e sia il senso di ogni innovazione.
[1]Sul punto, vale la pena ricordare la vicenda dello scorso anno che ha interessato Jason Allen, autore dell’opera Theatre d’Opera Spatial (fotografia generata da una IA), che vince il primo premio in un concorso alla Colorado State Fair innescando un contraddittorio tra chi crede che una tecnologia non possa partecipare a un concorso di arte e chi sostiene che quest’ultima non infici la qualità dell’oggetto artistico, che resta tale anche se sviluppato digitalmente (o direttamente da un algoritmo). Il valore artistico, tuttavia, resta nel senso che solo l’essere umano può dare al prodotto.
[2] In un mondo in cui il digitale ha smesso di essere una materia ed è diventato una lingua, non possiamo più immaginare, ad esempio, di formare avvocati che non conoscano il funzionamento di blockchain, smart contract e algoritmi di intelligenza artificiale. Così come psicologi, filosofi e sociologi non possono prescindere dall’impatto dell’utilizzo dello strumento tecnologico nell’ambito dei loro studi e delle loro professioni.